Dal primo aprile l’attività di prostituzione ha un suo codice Ateco. Ma siamo davvero davanti a una regolamentazione o solo a una nuova contraddizione?
Da sempre al centro di dibattiti morali, sociali e politici, la prostituzione torna a far parlare di sé in Italia, questa volta per un motivo burocratico: a partire dal 1° aprile, è stata ufficialmente inserita nella classificazione Ateco dell’Istat, sotto la voce “Servizi di incontro ed eventi simili”. Un passo che, almeno sul piano fiscale, sembra voler fare ordine in una zona grigia che da troppo tempo sfugge alla regolarità.
È bene ricordarlo: in Italia la prostituzione in sé non è reato, purché esercitata volontariamente, da una persona adulta e capace di intendere e volere. A costituire reato sono invece lo sfruttamento e il favoreggiamento, secondo la legge Merlin del 1958. Questo crea una situazione paradossale: si può esercitare la prostituzione, ma non si può gestirla o organizzarla in modo professionale. E proprio su questo punto si innesta il nuovo codice Ateco.
L’introduzione del codice ha l’obiettivo di permettere alle sex worker di uscire dall’invisibilità fiscale, dichiarando i propri redditi, versando le imposte e accedendo eventualmente a tutele previdenziali. In teoria, un segnale di civiltà. In pratica, però, il rischio è quello di creare un cortocircuito giuridico: lo Stato incassa le tasse da un’attività che, se esercitata in qualsiasi forma organizzata, è considerata reato.
Questa scelta apre a molte riflessioni. Stiamo andando verso una regolamentazione consapevole o stiamo solo legalizzando “a metà”? Può una sex worker aprire una partita IVA per “servizi di incontro” senza incorrere in accuse di favoreggiamento se si affida, ad esempio, a un’agenzia per la gestione clienti o per la sicurezza? E chi stabilisce il confine tra legittimo esercizio individuale e organizzazione criminale?
Il dibattito è aperto, e come spesso accade in Italia, la realtà corre più veloce delle leggi. Quello che oggi sembra un passo verso la trasparenza, rischia domani di generare nuovi paradossi, e forse nuove ingiustizie. Intanto, però, le sex worker potranno — almeno sulla carta — pagare le tasse.